Davide contro Golia: battaglia di Azincourt, Francia, 1415

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    Nel racconto biblico il giovane pastore Davide affrontò a duello il gigante filisteo Golia che era protetto da una spessa corazza. Davide si recò sul campo di battaglia con la sua frombola, una specie di fionda, quindi un'arma da lancio, e con cinque pietre per armarla, ad affrontare il gigante che da giorni incuteva timore su tutto l'esercito nemico, in un'impresa che sembrava disperata. La vittoria di uno dei due avrebbe deciso le sorti della guerra. Mentre Golia derideva Davide, quest'ultimo gli scagliò contro una pietra che lo colpì in piena fronte, uccidendolo.

    La vittoria di Davide è verosimile considerando che frombolieri facevano spesso parte dell'esercito romano e alcuni frombolieri sono rappresentati sulla colonna di Traiano che celebra la conquista della Dacia nel II secolo d.c. . Reparti di frombolieri presero parte anche alla conquista dell'Impero persiano da parte di Alessandro Magno nel IV secolo a.c. .

    Ma un evento che ricorda l'impresa di Davide secondo il racconto biblico, è successo veramente nella storia.

    Ad Azincourt (o Agincourt), nella Francia medioevale, nel 1415, un manipolo di soldati inglesi si ritrovò di fronte alle soverchianti truppe francesi, pesantemente armate.

    Circa 6.000-9.000 inglesi erano contrapposti a 25.000-36.000 francesi (a seconda delle fonti). Questi ultimi oltre ad essere in netta superiorità numerica, avevano molti reparti della temibile cavalleria pesante, protetta da spesse corazze.

    Cinque uomini su sei dell'esercito inglese erano armati con l'arco lungo inglese, un'arma da lancio micidiale che era già stata decisiva nella precedente battaglia di Crecy nel 1346, quando però gli arcieri inglesi poterono contare di una maggiore protezione da parte di altri uomini armati di spade e lance. In pratica se la cavalleria francese li avesse raggiunti sarebbero stati falciati come fili d'erba, e lo stesso sarebbe successo nel caso ci fosse stato un corpo a corpo tra i due eserciti.

    Dicono che il re inglese Enrico V tentò di scampare alla battaglia dirigendo il suo esercito verso la città fortificata di Calais, ma fu costretto allo scontro decisivo dai francesi che si posero tra gli inglesi e la loro potenziale salvezza.

    L'esercito francese era superiore a quello inglese sotto ogni punto di vista, per numero di cavalieri, per numero di fanteria pesante, fanteria leggera, persino nel numero dei soldati armati con armi da lancio.

    Nonostante l'esito della battaglia sembrava già segnato gli inglesi non si persero d'animo e furono i primi ad avanzare verso il nemico.

    Il resto è storia: migliaia di francesi furono massacrati da nugoli di dardi che piovvero dal cielo, mentre solo qualche centinaio di inglesi perse la vita.

    Questa pagina di storia è stata narrata, tra gli altri, anche da William Shakespeare nel dramma "Enrico V".

    Fu la vittoria oltre che del coraggio degli inglesi, anche dell'arco lungo e degli abilissimi arcieri addestratissimi a maneggiarlo. L'arco lungo è passato alla storia nell'immaginario comune per la saga di Robin Hood, ma è sui campi di battaglia della guerra dei cent'anni che ha dato il meglio di sé.

    Anche i francesi avevano reparti con armi da lancio, tra cui mercenari genovesi armati di balestra, che pure era stata considerata fino ad allora un'innovazione rispetto all'arco. Però la balestra nonostante ci volesse meno forza per utilizzarla, oltre che molta meno abilità e minore tempo per addestrare nuovi balestrieri, aveva un tempo di latenza tra un tiro e l'altro maggiore di quello che aveva un arco lungo azionato da un abile arciere, e quest'ultimo poteva contare anche su una gittata maggiore.

    Questo è il racconto che ne ha fatto lo storico e scrittore Franco Cardini:

    CITAZIONE
    Azincourt, vittoria dell'arco inglese

    di Franco Cardini

    Al pari di altre battaglie celebri, come Rocroi e Waterloo, quella di Azincourt è famosa anche, forse addirittura soprattutto, per la vigilia: i fuochi del bivacco, l'umido della notte, le paure e le speranze che s'incrociano attendendo il sorgere del sole. È così che ce l'ha descritta Shakespeare in una pagina celebre dell'Enrico V. Ed è stato sempre Shakespeare a fare della battaglia di Azincourt il giorno in cui le ragionevoli previsioni si rovesciano: e alla superba irruenza dei capi francesi orgogliosi della loro cavalleria e certi della vittoria, cui Enrico V e i suoi oppongono la mesta ma virile determinazione di morire con onore, risponde l'esito sconvolgente dello scontro.

    Era il venerdì 25 ottobre 1415. Il ventottenne Enrico di Lancaster – che appena asceso al trono d'Inghilterra due anni prima aveva con decisione rivendicato il diritto a cingere anche la corona di Francia – si era poi dimostrato flessibile, quasi remissivo, dichiarando di accontentarsi del rispetto della pace di Brétigny, siglata nel 1360, che comunque al sovrano inglese in quanto duca d'Aquitania riconosceva il possesso di Poitou, Guienna, Limosino e Guascogna. Soltanto dinanzi all'irrigidirsi dell'aristocrazia francese che attorniava il debole e folle re Carlo VI, Enrico - che sapeva di poter contare sull'appoggio di Giovanni Senza Paura duca di Borgogna e sulla violenza con cui le opposte fazioni stavano lacerando al Francia - salpò da Southampton l'11 agosto per approdare due giorni dopo non lontano dalla foce della Senna e tentar di stabilire una prima testa di ponte nella città di Harfleur.

    L'esercito inglese era piuttosto debole: solo 250 "uomini d'arme" che combattevano a cavallo e con armatura pesante, e circa 8mila arcieri, oltre agli inservienti e alla gente incaricata di gestire le macchine da assedio. Ma Harfleur oppose un'inattesa resistenza. Ci volle un mese e mezzo per averne ragione: cadde solo il 20 settembre e in quell'umida estate la dissenteria aveva intanto decimato, a quel che pare, circa un quarto degli uomini. A quel punto, gli giunsero allarmanti notizie sul fatto che i francesi andavano organizzando un formidabile esercito: egli, che date le sue scarse forze non aveva evidentemente intenzione di far molto di più d'una puntata su Parigi o di occupare qualche altra piazzaforte sulla costa normanna, stimò più prudente adottare una strategia di difesa e d'attesa. Si diresse quindi a Nord-Est, verso Calais, che gli inglesi tenevano saldamente dal 1347: ma si trattava d'affrontare una marcia di circa 250 chilometri e il passaggio della Somme. Frattanto i francesi, sotto il comando del conestabile di Francia Carlo d'Albret, si concentravano a Rouen con una formidabile armata: circa 25mila uomini, di cui 7mila cavalieri e 15mila "uomini d'arme" a cavallo.

    Era dunque evidente, per gli inglesi, che si trattava di evitare un impari scontro frontale, mentre i francesi miravano per contro a intercettare il nemico nel punto per lui più critico, il guado sulla Somme. Cercando disperatamente un passaggio fluviale non presidiato, gli inglesi furono costretti a scendere parecchio a sud, sino a Nesle: per scoprire tuttavia, una volta attraversato il fiume, che i francesi li avevano preceduti. Tuttavia il conestabile d'Albret, per quanto ben deciso a non far giungere Enrico a Calais, non aveva alcuna intenzione d'attaccare se non raggiunta la certezza della vittoria: e sapeva che ogni giorno in più indeboliva gli inglesi.

    Il 24 ottobre Enrico V dette ordine ai suoi uomini di piantare le tende presso il villaggio di Maisoncelles, circa a metà strada tra Arras e Calais. Al margine meridionale d'una piana abbastanza adatta a una battaglia campale, ma stretta verso il centro dalle foreste di Azincourt, a Occidente, e di Tramcourt, a Oriente. Il grande accampamento francese era situato a meno d'un chilometro più a Nord. La notte passò in trepida attesa e in preghiera per gli inglesi mentre i francesi, consci della loro schiacciante superiorità e almeno in apparenza sicuri della vittoria, facevano baldoria.

    Tuttavia, qualche elemento di dubbio doveva già essersi insinuato da entrambe le parti, dal momento che il clima era molto piovoso - il che non favoriva, soprattutto su quel pesante terreno normanno per giunta arato di recente, le cariche di cavalleria - e che il piano di battaglia dei francesi, che conosciamo grazie a un documento pervenuto fino a noi, ha un carattere tattico spiccatamente difensivo e denunzia molta preoccupazione per il massiccio schieramento di arcieri di cui il nemico disponeva.

    Alla luce di ciò, è lecito anche chiedersi se davvero Enrico dette battaglia perché costretto a farlo. Senza dubbio, egli si trovava a Sud rispetto ai francesi, che risalendo da Arras lo avevano superato da Est e gli avevano tagliato la strada per Calais: se voleva proseguire verso il suo obiettivo, il re era obbligato allo scontro impari. Inoltre il suo esercito era fatto di circa 6mila uomini, quasi tutti armati alla leggera e a piedi; e si trovava di fronte una massa di combattenti oltre quattro volte più forte della sua. Ma la superiorità del nemico stava essenzialmente nella sua enorme cavalleria: ora, la pioggia aveva trasformato in un campo fangoso la pianura ai margini della quale i due eserciti erano schierati e che, a metà, si andava restringendo sino a lasciar un varco di più o meno settecento metri fra le due masse forestali che la delimitavano. La formidabile cavalleria francese, su un terreno fradicio e con un fronte così stretto su cui dispiegarsi, era pesantemente handicappata in partenza. Che il re avesse calcolato genialmente bene il luogo e il momento in cui costringere il nemico a misurarsi con lui?

    Lo scontro cominciò il 25, a giorno fatto. I francesi si erano schierati su tre linee miste di cavalieri, fanti, balestrieri e arcieri, la prima delle quali era comandata dallo stesso conestabile e dal maresciallo di Francia, Giovanni le Maingre conosciuto come Boucicault. Un forte contingente mobile, sulla sinistra del dispositivo, avrebbe dovuto attaccare gli arcieri nemici e scompaginarli. Gli inglesi avanzarono fin dal primo mattino, fino a disporsi verso le 11 nel punto più stretto della pianura, appoggiati alle due aree forestali, organizzandosi in tre modesti corpi di cavalleria separati e affiancati da massicci reparti di arcieri disposti, sui lati, in posizione avanzata, in modo da conferire al dispositivo la forma di una mezzaluna appoggiata ai margini boscosi e quindi impossibile da aggirarsi. Gli arcieri si erano provvisti di robusti pali di legno appuntiti ai due lati, che avrebbero piantato dinanzi a loro all'atto della carica della cavalleria nemica per infrangerne l'urto.

    Era Enrico obbligato a dar battaglia, se voleva raggiungere Calais. Tuttavia, l'iniziale e forse fatale errore dei francesi fu il loro iniziale indugio: era evidente che la loro tattica era difensiva, tuttavia, se avessero attaccati per primi, avrebbero impedito agli inglesi di occupare il centro del campo e di utilizzare la strozzatura del terreno per attestarsi in un punto in cui le foreste ai lati impedivano ai cavalieri di compier manovre d'aggiramento e dal quale potevano colpire con le loro frecce il nemico, dato che il lungo arco inglese aveva una portata di circa 250 metri, molto superiore a quella delle balestre di cui i francesi erano largamente dotati.

    Verso mezzogiorno, poiché i francesi restavano immoti, furono gli arcieri inglesi ad attaccare con un micidiale nugolo di dardi. La cavalleria francese, a quel punto, non poteva che scatenare al galoppo le sue "battaglie" laterali per scompaginare i micidiali reparti nemici: ma la pioggia e il terreno fangoso rallentarono la carica e i cavalieri, decimati dalle frecce nemiche, dovettero ripiegare verso il centro finendo per scompaginare i loro stessi compagni che, dalla formazione centrale, stavano a loro volta avanzando dopo aver fatto appiedare i cavalieri. I francesi, accalcandosi verso il centro del campo di battaglia per evitare le frecce degli arcieri che li incalzavano dai lati, finirono col ricevere il loro principale danno da quello che era il loro grande vantaggio iniziale, la superiorità numerica.

    Seguì un durissimo, ma breve corpo a corpo: nel quale i cavalieri erano svantaggiati rispetto ai fanti dato il peso delle loro armature, mentre gli arcieri e i balestrieri - abbandonate le loro armi da lancio - vi prendevano ferocemente parte con le spade, le asce e le mazze di cui erano dotati.
    Dopo una mezz'ora di quel macello, che gli inglesi avevano dominato avanzandosi nella disordinata calca dei nemici e decimandola come mietitori al lavoro, la giornata era decisa. Sussisteva il pericolo della terza linea francese, rimasta quasi intatta ma che rinunziò allo scontro: vi furono solo alcune isolate reazioni, come un assalto inatteso al campo inglese condotto con un metodo da guerriglia, che portò al massacro di molti feriti e al saccheggio della stessa tenda reale.
    La persistente superiorità numerica francese procurava tuttavia ancora parecchie preoccupazioni al re, che impartì per questo il poco opportuno e non onorevole comando di uccidere i molti che erano stati presi prigionieri: provocando sia lo scontento dei suoi uomini, che si aspettavano di conseguire grossi guadagni dai riscatti, sia l'indignato rifiuto dei cavalieri che respinsero un ordine tanto contrario ai loro valori morali. Gli imprigionati spediti in Inghilterra in attesa di riscatto giunsero tuttavia a 1500.

    Si calcola che le perdite francesi fossero ingenti: 1.560 cavalieri, circa 7mila tra fanti e balestrieri (altre fonti fanno arrivare i caduti a quasi 10mila). Gli inglesi non persero più di 400 uomini; e, tra i loro nobili, cadde solo il duca di York, zio del sovrano.
    Dopo la battaglia, i francesi tentarono solo, senza successo, di riconquistare Azincourt. Intanto l'assassinio di Giovanni senza Paura indirizzò decisamente il nuovo duca di Borgogna, Filippo il Buono, a stipulare un'alleanza con il re d'Inghilterra: frutto di tale nuovo equilibrio fu il trattato di Troyes del 1420, che assegnava a Enrico d'Inghilterra - il quale aveva intanto sposato Caterina, la figlia del destituito Carlo VI - la corona di Francia.

    I giochi non erano tuttavia stati del tutto ancora fatti: non lo sono mai, nella storia. Focolai di resistenza restavano, attorno al delfino Carlo fratello di Caterina che non si era rassegnato a veder svanire così i suoi diritti ereditari al trono. Enrico, ammalatosi di dissenteria nel corso di una campagna estiva contro gli insorti, morì trentacinquenne nell'agosto del 1422. Sette anni dopo, una ragazzina lorenese che diceva di parlare con gli angeli e i santi avrebbe di nuovo capovolto l'equilibrio determinato dalle armi di Azincourt.

    Fonte: ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Tempo%20libero%20e%20Cultura/2008/grandi-battaglie/xml/battaglie-2-Azincourt.shtml

    Edited by Saisontor - 27/11/2016, 10:17
     
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    Ho preso ad esempio Azincourt anche per la somiglianza al mito di Davide e Golia per tipo d'armi decisive, le armi da lancio che colpiscono a distanza, oltre che per la grande disparità numerica.

    Nella storia ci sono state molte altre battaglie in cui un esercito ha avuto la meglio su un avversario in netta superiorità numerica.

    Tra queste c'è Bannockburn nel 1314 dove 10.000 scozzesi affrontarono e sconfissero 25.000 inglesi. Battaglia della prima guerra d'indipendenza scozzese che è celebrata anche nel film Braveheart di Mel Gibson.

    Ma gli inglesi si rifecero presto a Dupplin Moore nel 1332, con 3.000 inglesi e 15.000 scozzesi, dove per la prima volta si resero conto dell'efficacia micidiale degli arcieri armati con arco lungo. Pare che morirono solo 33 inglesi a fronte di qualche migliaio di scozzesi.

    Questa battaglia di Dupplin Moore fu decisiva per far prendere coscienza agli inglesi della forza micidiale dei nugoli di frecce dei propri arcieri e in seguito la stessa tattica fu ripetuta molte volte nella guerra dei cent'anni permettendo schiaccianti vittorie - sempre in grande inferiorità numerica - contro i francesi nelle battaglie di Crecy (1346), Poitiers (1356) e Azincourt (1415).
     
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